A night at the Fonclea (*)

Luci basse, pareti ruvide, birra tiepida, tavoli sporchi, poca gente. Sul piccolo palcoscenico suonano in cinque: due chitarre, un basso, voce e batteria. E’ una sera come tante. Neanche un fine settimana.  Si sta in scena, si snocciolano i pezzi, si fanno battere le mani agli amici. Non è l’Olimpico, non è Wembley. Stasera  è  una reunion: gente che si è messa a far musica almeno 30 anni fa. Io li guardo, chiudo gli occhi e avverto la loro energia. Me li immagino come avrebbero potuto essere all’inizio, quando il futuro era il possibile e l’unica cosa che veramente contasse era suonare. Non importa dove la musica li avrebbe portati.

Se dovessi far combaciare quelli di allora, con quelli di oggi, farei fatica. Le panzette, i capelli radi, le rughe. I figli, le compagne, le mogli, il mutuo da pagare, la casa fuori città, il lavoro ordinario (che non sempre l’arte ti da da mangiare). Si perchè quando il concerto finisce e ci puoi scambiare due chiacchere, i musicisti sono gente normale.

All’amore mio ha fatto male rincontrarli. Perchè erano amici e rivederli adesso, a distanza di così tanto tempo scattano i brutti pensieri: “La vita va vissuta subito, perchè non la puoi controllare … Ti porta in giro, dove vuole lei..” Eh, sì. Per sempre cristallizzati in quella bolla di tanti anni fa, com’è difficile riconoscersi adesso. Mica si è rimasti uguali. Mica si è rimasti quelli lì di un tempo. Si può fingere. Ma siamo fottuti.

*Il Fonclea è un locale romano, sito a pochi passi da San Pietro, dove si fa musica dal vivo fin dal 1977.

Mark Hollis

Era un crescendo, i rumori della foresta, un barrito (forse) subito incalzato dal battere delle percussioni. Il ritmo diveniva sempre più chiaro, scandito come fosse un metronomo per poi salire e salire, e infine quella voce, mai sentita prima, indefinibile. Il basso, fottuto basso, grattato, sfregato a più non posso. E quella faccia. Sorridente, sardonica, ironica. Un berretto da marinaio, una frangetta, le orecchie a sventola, gli occhiali tondi e scuri. Mark Hollis consegnato alla storia della musica. Con i video negli anni del tripudio della music television, della sperimentazione di nuovi linguaggi e nuovi ingaggi. Quando ideare e realizzare la copertina di un vinile faceva la differenza. Bestie, bestie ovunque. Grandi, piccole, schifose, colorate, notturne. Uno zoo debordante e vitale.

Tutto questo è rimasto in un cassetto per decenni. La vita ti spinge avanti, ti allontana dalla tua adolescenza, dalle scoperte, dai tuoi sogni. Io che mi ingegnavo a registrare su nastro i brani trasmessi alla radio. Che chiamavo il mio amico fidato quando passavano quel video alla tv “such a shame” (corri, corri che ci sono i Talk Talk!). Quelle onde sonore, quel piacere di ascoltare. Anche senza capire. In fondo vivevamo in un altro mondo, inconsapevoli di quello che ci attendeva, di quella cosa vaga chiamata futuro. Non era meglio il presente che ci scivolava addosso, senza pretese, senza possibilità di fuga?

Tutto è finito e compiuto, in un certo senso. Gioia di vivere, di creare. Gioia di indossare abiti nuovi, di piacere alle ragazze, di provare un nuovo taglio di capelli. Caro Mark, io che ti pensavo eterno eterno e sempre uguale,  fermo in un fotogramma a lanciare i dadi contro il cielo plumbeo della lontana Inghilterra. Ti ho voluto un sacco bene, a mio modo. Grazie per i giorni passati, che non torneranno, con quella musica in testa.

mark hollis