Il britpop de noantri

Il 25 aprile del 1994 veniva messo in commercio l’album “Parklife” dei Blur. La prima traccia si intitolava “Boys and Girls” ed era accompagnata da uno scanzonato video molto british, in cui gli allora giovani componenti del gruppo gigioneggiavano e si divertivano. Damon Albarn era, probabilmente, al momento della sua massima figaggine. Fu uno degli istanti “top” del britpop inglese che dominava le classifiche di quegli anni.

Il 13 aprile del 2024 i Blur, di nuovo insieme, si sono esibiti al Coachella , festival canoro californiano, riproponendo al pubblico in versione live la suddetta canzone e riscuotendo scarsissimo successo. Al punto che un bianco vestito e barbuto Damon (sempre più profeta di sé stesso) si è parecchio incazzato, maledicendo tutti quanti e promettendo sfracelli e piaghe d’Egitto ai tiepidi spettatori.

Ma poniamoci una domanda.

Perchè un giovine o una giovinetta, magari nati proprio nel 1994, si dovrebbero riscaldare così tanto e canticchiare il ritornello “Oh, oh, oh, oh oh, oh Oh, oh, oh, oh oh“, per di più a comando, di una canzone che forse neanche rientra nel loro panorama esperienziale ?

E la seconda domanda è: dopo trent’anni ha ancora senso che i Blur si esibiscano dal vivo ? Magari a ventisei anni aveva senso cantare:

Following the herd
Down to Greece
On holiday
Love in the nineties
Is paranoid
On sunny beaches
Take your chances
Looking for

A cinquantasei nessuno va più a cercare ragazzi e ragazze.

Oh, oh, oh, oh oh, oh Oh, oh, oh, oh oh ohi!

la celebrazione della vita, magari sbilenca, imprecisa, imperfetta

Vivere come volare
Ci si può riuscire soltanto poggiando su cose leggere
Del resto non si può ignorare
La voce che dice che oltre le stelle
C’è un posto migliore
Un giorno qualunque ti viene la voglia
Di andare a vedere, di andare a scoprire se è vero
Che non sei soltanto una scatola vuota
O l’ultima ruota del carro più grande che c’è

Ma chiedilo a Kurt Cobain
Come ci si sente a stare sopra a un piedistallo
E a non cadere
Chiedilo a Marilyn
Quanto l’apparenza inganna
E quanto ci si può sentire soli
E non provare più niente
Non provare più niente
E non avere più niente
Da dire

un mondo a parte (che vale doppia recensione)

Per questioni di ordine lavorativo vivo in Abruzzo dal 2021, pur essendo romano. In questi tre anni, spinto molto dalla curiosità del neofita, ho girovagato per la regione, in lungo ed in largo, per comprendere usi e costumi della popolazione ed apprezzare al meglio storia, architettura, tradizioni, usi, costumi, cucina, flora e fauna. Non sono diventato più abruzzese di un abruzzese, ma mi sento partecipe e vicino a questa gente. In parte il processo di assimilazione è occorso anche grazie alla pagina FB denominata “L’abruzzese fuori sede” che mi ha ulteriormente spalancato le finestre, con sottile ironia, su tanti aspetti della vita quotidiana, spesso legati al linguaggio. E si sà, le parole sono importanti.

Ho, quindi, accolto con benevolo interesse l’uscita del film “Un mondo a parte”, che sono andato a vedere in anteprima all’Aquila, ambientato ad Opi nel Parco nazionale Abruzzo, Lazio e Molise. Opi nel film è stata ribattezzata Rupe, ma secondo me era meglio lasciare il nome originario anche in onore di Escher che dell’antico borgo trasse alcune bellissime immagini. Stop divagazioni e veniamo alla sostanza di questa recensione. Il film di per sè non è nulla di eclatante. E’ carino, diretto bene, gli attori sono bravi (anche quelli non professionisti), la storia è piacevole, il messaggio arriva. Ma è tutto qui. Non è un capolavoro, non è una forte denunzia sociale. Però, ha un elemento in più: un fortissimo battage pubblicitario. Ovvero, il regista e i due attori principali sono praticamente in tournè in tutti i cinema d’Italia (anche quelli più infimi) per promuovere il film. E la cosa ha funzionato. Tant’è vero che alla premiere cui ho preso parte le due principali sale erano piene di gente. E i dati dei film più visti durante il periodo pasquale collocano il menzionato film ai primi posti.

L’assunto conclusivo è: se sai fare una buona pubblicità (e scegli attori di richiamo che stanno simpatici al pubblico), ti verranno a vedere. Al di là della validità del prodotto che proponi.

Ieri sono andato a vedere “Zamora”, appena uscito. Che è altrettanto leggero, ben recitato, garbato, umano, interessante e tutto sommato valido. E in sala eravamo in quattro.

Tî mmènde!

Duna

«Senza DuneGuerre stellari non sarebbe mai esistito» (George Lucas).

Parto subito con una bella citazione per introdurre l’amabile e solitario lettore che mi segue ad un’altra imperdibile recensione dedicata, questa volta, al film “Dune” in programmazione ormai da tempo nelle sale cinematografiche italiane. Film da me visto in un’enorme sala dall’impianto sonoro pompato al massimo (che a tutti gli effetti ha il suo perchè, soprattutto nelle scene epiche).

Premesso che non ho letto i libri e che la visione di “Dune – part 1” risale ad alcuni anni orsono e non sono andata a ripassarla, ho approcciato il film a mente sgombra e priva di pregiudizi, solo per il piacere di entrare nella narrazione fantascientifica.

La trama dell’opera è riassunta perfettamente nelle successive strofe, tratte dal brano dei Baustelle e i Cani:

Non scompiglia, forse, i tuoi capelli
Un poco dello stesso vento che spirava a Babilonia
Che soffiava su altre vite e carovane già passate
Sulla via, prima di noi?

Non c’è, forse, dentro la tua voce
L’eco di un amore atroce, l’ombra di una connessione
Tra i cantanti micidiali della tua generazione
E Nabucodonosor?

Inoltre, in considerazione della complessità della trama con casate, nomi di fantasia e intrecci vari, lo spettatore medio rischia di cadere nell’effetto “Kmer figlio di Pdor” ovvero il cavallo di battaglia dei comici Aldo, Giovanni e Giacomo dei tempi migliori. Per esempio, nella sceneggiatura dei dialoghi, il seguente passaggio avrebbe potuto funzionare alla grande:

Io sono il grande Pdor, figlio di Kmer della tribù di Instar! Della terra desolata del Sknir! Uno degli ultimi sette saggi! Purvurur, Garen, Pastararin, Giugiar, Taram, Fusciusc e Tarin He! Colui il quale può leggere nel presente, nel passato e anche nel congiuntivo!

A livello di trama, non si provano grandi sorprese: i cattivi fanno i cattivi, i buoni fanno i buoni e ognuno muore o vince quando è opportuno, senza grande coinvolgimento emotivo. Ecco, forse, la pecca più grande di questo film è non riuscire a rendere del tutto il tormento del protagonista e la difficoltà delle sue prove di iniziazione. Per il resto le ambientazioni sono belle, gli effetti speciali funzionano, i vermi fanno i vermi, le astronavi fanno le astronavi, le battaglie sono battaglie (ma io non riesco a comprendere come mai nei racconti di fantascienza, pur avendo a disposizione armi di distruzione di massa potentissime, alla fine tutto si riduce a scazzottate o a duelli con la spada. Ma davvero?) .

A chiusura di questo pezzo, vi segnalo che sebbene il titolo del film sia scritto uguale in inglese e in italiano, nella lingua albionica è sostantivo femminile singolare. Appare, quindi, chiaro che la Fiat Duna è l’ unico vero e semisconosciuto tributo della casa automobilistica torinese all’opera letteraria di Frank Herbert.

CCCP (che si pronuncia SSSR)

A cavallo tra gli ottanta e i novanta, nei corridoi marmorei dell’università privata ove presi la laurea, nel tempio di confindustria e del capitalismo rampante, noi studenti di economia si ascoltava nei walkman (oggetto preistorico e sconosciuto ormai ai più), tra una lezione e l’altra, i CCCP.

E ho detto tutto.

Mo’ tutto ‘sto revival, ‘sto finto rimpiantismo, ‘sta celebrazione , ‘ste polemiche sul costo dei biglietti. Ma andate un pò in vacanza in uno splendido Glavnoe upravlenie ispravitel’no-trudovych lagerej.

le grandi rivoluzioni occasionali

C’era un mio amico di tanto tempo fa che era sempre avanti su tutto. Le cose le sapeva prima e le sperimentava per primo. Non so come facesse, ma ci riusciva. Immagino l’ebrezza di essere uno sperimentatore, quello che fa i primi passi, da solo o quasi. Il suo campo preferito era quello dell’informatica e, in particolare, il web. Il rovescio della sua spasmodica ricerca della novità era rappresentato dal fatto che appena qualcosa diveniva di uso comune, si disamorava presto, per dedicare la propria attenzione ad altro. In questo, il suo comportamento era di sicuro quasi elitario. Ora, nel campo dell’evoluzione tecnologica la rapidità con cui si succedono le innovazioni ha raggiunto ritmi piuttosto vertiginosi, un pò per spinta commerciale, un pò per effettivo progresso. Ed è anche piuttosto ovvio che, ogni volta che viene fatto un salto in avanti, anche di natura quantica, difficilmente si torna indietro o si rimpiange il passato.

La stessa cosa è avvenuta con i social, in un arco temporale tutto sommato piuttosto breve. Direi circa venti anni. Che è grosso modo da quando ho iniziato a scrivere il mio blog in territori che non esistono più (la migrazione sull’attuale piattaforma, occorsa nel 2011, mi ha fatto perdere, purtroppo, il pregresso che, almeno a memoria, dovrebbe risalire addirittura al millennio precedente). Ricordo, ad ogni modo, in maniera molto netta la sensazione di onnipotenza che mi conferiva possedere un sito personale (piuttosto statico) trasmutato poi in diario di bordo digitale. Mi sembrava di far parte di una setta, di un gruppo di felici cospiratori, tutti accomunati dal desiderio di esporre pensieri, condividere letture ed opinioni, costruire percorsi dialettici. Certo, non ero bravo come gli organizzatori di boot camp e premi macchianera et similia. Ma avevo la sensazione di alimentare un processo di crescita e confronto. Il digitale stava aprendo nuovissime frontiere e l’identità acorporea si vestiva di nuove valenze e super poteri. Di quella stagione lì, a distanza di tempo, non è rimasto quasi nulla. I processi di comunicazione hanno preso altre vie, i blog sono divenuti desueti e soprattutto, l’uso del web è divenuto “volgare”, mosso da bassi istinti e da poco avveduti soggetti. Se un tempo si cercava la dotta e calzante citazione, frutto di letture o passaggi cinematografici, adesso siamo alla fase “rutto libero” (molto spassosa, ma poco gratificante). E’ come se si fosse persa la solida compostezza di persone che avevano piacere a ragionare in favore dell’esaltazione del corpo sciolto. Più democratico, senza alcun dubbio, ma anche di gran lunga meno interessante.

Capisco, quindi, il mio amico di un tempo che si annoiava presto dell’ultima novità. Lui, di sicuro, è andato molto avanti, conscio (non so quanto) che l’unica cosa interessante è cogliere la traiettoria nel momento in cui si dispiega e traccia un percorso, mentre io sono ancora qui a scrivere a favore di non si sa bene chi. Forse solo a me stesso.

la zona di interesse

Era un pò che volevo andare a vedere il film “La zona di interesse” e per convincermi c’è voluto l’oscar (ma ci sarei andato lo stesso). Al cinema, ieri sera, eravamo una decina di persone in una grande e bella sala con ottime poltrone e un fantastico sonoro.

All’intervallo del primo tempo (senza passaggio del bibitaro, antica e ormai scomparsa usanza causa diffusione delle multisala) ho afferrato il commento di uno degli spettatori: “si bello, però dopo tre minuti si capisce su cosa ruota la storia”, cui sono seguite alcune considerazioni su dove andare a mangiare il sushi dopo la proiezione. Accompagnate, infine, da un confuso sproloquio sulla Palestina.

Mai recensione fu più appropriata, per tre ordini di motivi:

1) la storia ruota intorno alla “banalità del male”, rappresentata dalla nazi-famiglia che vive comoda e placida a pochi metri dal campo di concentramento. Impermeabile alla tragedia, anzi complice dello sterminio. Gli echi dello sterminio sono appena evocati con rumori di sottofondo e volute di fumo nero di giorno e fiamme dell’inferno di notte.

2) Oggi, a così tanti anni di distanza, e scomparsi quasi tutti i testimoni e i protagonisti, la maggior parte delle persone è impermeabile all’idea dello sterminio che è divenuta pura rappresentazione filmica. Una cosa che rimane sullo sfondo tra le decine di piccole preoccupazioni quotidiane di scarsa importanza. Siamo cinici? Forse.

3) Non giova alla causa ebraica quanto sta accedendo in Palestina da ormai diversi mesi. E’ come se, per la prima volta (a parte frange di idioti negazionisti) il primato dell’orrore (il termine “genocidio” ha avuto una prima compiuta utilizzazione in campo giuridico proprio per condannare i responsabili dei campi di concentramento) non fosse più una esclusiva degli ebrei. Non si può più usare come risarcimento (guardate cosa ci avete fatto) perché l’azione militare dell’esercito israeliano assomiglia ormai ad un’odiosa pulizia etnica.

Personalmente credo che “La zona di interesse” sia uscito in un momento importante della storia e può alimentare un utile confronto su un tema che non può essere liquidato con facili approssimazioni. Anche e soprattutto nei giorni del conflitto e della distruzione.

Da un punto di vista registico ho apprezzato molte delle scelte visive: gli stacchi di vuoto completo all’inizio e durante il film, quasi una sorta di vuoto incolmabile delle coscienze; la freddezza ordinata e pulita degli ambienti ove vivono i protagonisti; l’onirica rappresentazione in bianco e nero della ragazza che nasconde il cibo nella terra nella speranza che possa essere trovato dai prigionieri, unica forma di ostinata e silenziosa protesta contro un male straripante; la galleria degli orrori dei reperti conservati ad Aushwitz dentro grandi teche e vetrine, visti con gli occhi delle donne delle pulizie. Ma anche il conato di vomito di Rudolf Höß , comandante del campo, ed il suo sguardo verso quelle stesse vetrine, quei macabri oggetti conseguenza del suo operato. Un pentimento che in realtà, non vi è mai stato.

«Avere una fattoria che diventasse la nostra patria, il focolare per noi e i nostri figli, dopo la guerra intendevo infatti abbandonare il servizio attivo e comprare una fattoria.»