innamorarsi in questo altrove

«la civiltà mi sta lentamente abbandonando. Comincio a pensare con semplicità, a non avere più odio per il mio prossimo, anzi ad amarlo. Godo tutte le gioie della vita libera, animale e umana. Sfuggo alla fatica, penetro nella natura: con la certezza di un domani uguale al presente, così libero, così bello, la pace discende in me; mi evolvo normalmente e non ho più vane preoccupazioni» Paul Gauguin (1848-1903)

biografie polverose

Ho terminato da pochi giorni la prima stesura della mia autobiografia. Si intitolerà “Autobiografia non richiesta” e contiene tutto ciò che conosco meglio: me stesso. Non so se infliggerò all’umanità la distribuzione del testo o se rimarrà chiusa in un cassetto. Di certo è stata un’utile seduta di psicoterapia.

Ecco l’incipit:

Ci provo a rimettere tutto insieme. Non  è semplice quando si tratta di giocare con un puzzle, quello da 1500 pezzi in su, figurati con la vita. E’ la foto sulla scatola che ti trae in inganno: il castello di Ludwig in Baviera, bello e fiabesco, sembra alla portata di tutti. Ma è quando sollevi il coperchio e vedi la busta con  i pezzi scompaginati che ti prende lo sconforto. Sai, fin da subito, che impiegherai un sacco di tempo a collocare ogni cosa in ordine, che sarai distolto da continue interruzioni, che qualcuno ti sposterà i pezzi, magari il gatto in un momento di giocosa felicità, e prima di riuscire a posizionare l’ultimo tassello,  sarà passata una vita intera. La tua. E il castello di Ludwig magari neanche ti piaceva.

Stare in giro con i matti di notte

Ieri, mi trovavo dalle parti del Verano (cimitero monumentale di Roma) in attesa del rientro di mia figlia (a tardissima notte) da una manifestazione di protesta. Era un bel pò che non uscivo da solo nella fascia oraria “scarpetta di Cenerentola”. Il panorama cittadino offriva i seguenti benefits: aiuole ingiallite sotto la statua bronzea di Papa Pio XII (quello del bombardamento della seconda guerra mondiale); un angolo della piazza occupato dagli stand raccogliticci di una rassegna culturale che al momento della mia passeggiata offriva musica sud americana e birra alla spina ad alcune decine di giovani in libera uscita; i cancelli chiusi del cimitero. Mi sono avvicinato alla città dei morti, passando sotto la colonna dedicata a San Lorenzo e mi sono fermato davanti al colonnato dell’omonima chiesa. Lì era tutto vuoto e silente. Mentre, intorno, c’erano i rumori della città: il traffico veicolare, la musica caraibica, le voci delle persone. Io stavo in una zona d’ombra, in disparte. Pensavo ai morti che stanno lì dentro e a noi vivi che li incalziamo da fuori. Poi sono andato a farmi una birra anch’io e ad osservare l’umanità notturna. Mi sono messo su una scomoda panchina di legno, con il mio calice in plastica e subito la mia attenzione è stata attratta da una signora anziana (età indefinibile: sopra i sessanta, ma sotto gli ottanta) vestita di verde e con una vistosa cuffia bianca per ascoltare musica calata sulle orecchie. Una matta. Che parlava da sola e ce l’aveva con qualcuno. Che stava lì, in mezzo alla vita degli sfaccendati. Indifferente a ciò che le succedeva intorno, persa in un suo ragionamento fatto di ombre e ricordi, di parole legate insieme, di nodi da sciogliere. Mi è parsa la persona più normale di tutto quel consesso.