sostituzioni

I “giornalisti” si sostituiscono ai giudici

I giudici si sostituiscono ai politici

I politici si sostituiscono agli influencer

Gli influencer si sostituiscono ai medici

I medici si sostituiscono agli opinionisti

Gli opinionisti si sostituiscono agli scienziati….

Hans plays with Lotte, Lotte plays with Jane
Jane plays with Willy, Willy is happy again
Suki plays with Leo, Sacha plays with Britt
Adolf builds a bonfire, Enrico plays with it

Whistling tunes
We hide in the dunes by the seaside

Whistling tunes
We’re kissing baboons in the jungle
It’s a knockout

Affrontare José Saramago a fari spenti

L’altra sera, intorno all’ora dell’aperitivo, sono entrato nella mia libreria preferita sul Corso. Dopo una giornata di lavoro lunga e con impegni prossimi alla scadenza, cercavo conforto, gironzolando tra gli scaffali. Mi piace quell’atmosfera un pò sospesa e silente che si respira tra i libri. Li sfiori con lo sguardo, leggi i titoli, osservi la disposizione degli accostamenti (in genere per ordine alfabetico). Non cercavo nulla in particolare, a parte un libro ormai fuori commercio e perciò introvabile, e mi è caduto l’occhio su uno scaffale dove erano allineati in perfetto ordine numerosi testi, ma con una piccola dissonanza: qualcuno aveva lasciato, appoggiato di traverso e fuori posto un libro. Era un dorso orizzontale che riposava su fratelli allineati in verticale. Forse un ripensamento di un potenziale acquirente, forse un ribelle cartaceo animato di vita propria. Quel libro mi ha chiamato. L’ho preso in mano, ne ho sfiorato la copertina nelle tonalità del giallo con una bella illustrazione, l’ho sfogliato velocemente, annusando al contempo l’odore della carta.

Così l’ho scelto. E adesso mi sto leggendo “Cecità” di Josè Saramago, senza nulla sapere, ma per il solo piacere della scoperta.

strani paragoni musicali

Cerco le mie strade con associazioni casuali e non sempre logiche. Ma del resto cosa c’è di logico in questo mondo? Solo l’apparenza (o lo sforzo di fare ordine enciclopedico contravvenendo alle leggi entropiche). Dunque, in questi giorni (in cui si parla, purtroppo, molto di musica e di tutto ciò che le gira intorno), mi sono capitati per le orecchie due album che non conoscevo o conoscevo poco. Si tratta, nell’ordine, di “Low” di David Bowie (1977) e “Spirit of Eden” dei Talk Talk (1988). Che non hanno nulla in comune tra loro. Eppure sono saltati fuori da un cilindro magico ed hanno illuminato un pezzetto della mia vita presente. Perché? In buona sostanza perché sono quanto di più lontano si ascolta nel 2024.

“Low” è un album sperimentale, depresso, ritmico, futuristico.

“Spirit of Eden” è il suicidio discografico di una band che era stata pop fino a poco tempo prima.

Due album senza compromessi, ricchi di sonorità, forza creativa, introspezione, libertà. Il primo nato in un periodo di necessario cambiamento per Bowie dopo gli eccessi con la droga negli USA. Il secondo ispirato dal genio intimista e sofferto di Mark Hollis, altrettanto insofferente a certe regole dello showbiz.

Suonano belli, innovativi, spiazzanti, privi di compromessi, in alcuni tratti pallosi, in altri necessari. Richiedono concentrazione all’ascolto, perché ricchissimi di sfumature.

Insomma due opere, lo ribadisco anche nel finale, che sono tutto ciò che la musica di oggi non è.

L’essere poeretti (poor things)

“Poor things” è un film che parte da lontano e si porta appresso nomi fantastici.

Intanto, è tratto da un libro il cui autore si chiamava Alasdair. Era scozzese e sapeva fare splendidi disegni. Poi ci si è messo di mezzo un regista di origini greche che si chiama Yorgos, il quale ha al suo attivo film piuttosto distopici e disturbanti (di cui non dirò nulla perché non li ho visti). Infine, si perviene ad un’attrice come Emma Stone (che viene da Scottsdale) ed avevo molto apprezzato in “Birdman”. Poi ci sarebbe Willem Dafoe che è sposato con Giada Colagrande, ma qui rischio di andare fuori tema.

Torniamo alla pellicola. Al solito mio, non parlo della trama (che trovate in giro sul web ad ogni pié sospinto), ma su cosa mi ha colpito.

In primis, tutto l’apparato scenografico e dei costumi. Gran parte del film si regge su questo strano mondo ibrido similvittoriano-moderno, sull’intreccio tra convenzionale e queer, sul mix di tecniche all’avanguardia e artigianali alla Georges Méliès. Sarebbe potuto venire fuori un gran pasticcio e, invece, tutta la vicenda tiene.

In secundis, l’immaginario ed il reale, il futuristico e l’arcaico si sostengono a vicenda e le vicende della protagonista Bella, la sua scoperta del mondo, il suo approccio candido e libero da convenzioni, il suo rivendicare autonomia di giudizio e piena disponibilità del proprio corpo (si scopa parecchio, oh si, si) lascia spazio a parecchie riflessioni sulle convenzioni sociali, sulla libertà di pensiero e giudizio.

Su tutto il film aleggia, senza neanche troppa dissimulazione, la figura del “mostro”. Godwin Baxter, colui che porta in vita Bella con il trapianto di cervello, è un moderno Frankenstein segnato nel volto nel corpo dagli esperimenti scientifici condotti su di lui dal padre. Bella è un “mostro”, ma anche l’esempio del sublime, qualcosa di cui avere timore, perché diverso. E mostri, più o meno dissimulati, ce ne sono sparpagliati per tutto il film: dai clienti del bordello fino all’ufficiale ex marito, sanguinario e cattivissimo (i pavimenti rosso sangue della magione-prigione sono un dettaglio fighissimo che non sfuggirà ai più attenti) che verrà poi trasformato in mansueta capretta brucante (ho concluso con uno spoilerone, ma tant’è).

Dunque, se avete un pò di tempo a disposizione, vi esorto ad andare al cinema a vedere “Poor things”. Saran soldi ben spesi e potrete parlarne per settimane ad ogni utile occasione.