un mondo a parte (che vale doppia recensione)

Per questioni di ordine lavorativo vivo in Abruzzo dal 2021, pur essendo romano. In questi tre anni, spinto molto dalla curiosità del neofita, ho girovagato per la regione, in lungo ed in largo, per comprendere usi e costumi della popolazione ed apprezzare al meglio storia, architettura, tradizioni, usi, costumi, cucina, flora e fauna. Non sono diventato più abruzzese di un abruzzese, ma mi sento partecipe e vicino a questa gente. In parte il processo di assimilazione è occorso anche grazie alla pagina FB denominata “L’abruzzese fuori sede” che mi ha ulteriormente spalancato le finestre, con sottile ironia, su tanti aspetti della vita quotidiana, spesso legati al linguaggio. E si sà, le parole sono importanti.

Ho, quindi, accolto con benevolo interesse l’uscita del film “Un mondo a parte”, che sono andato a vedere in anteprima all’Aquila, ambientato ad Opi nel Parco nazionale Abruzzo, Lazio e Molise. Opi nel film è stata ribattezzata Rupe, ma secondo me era meglio lasciare il nome originario anche in onore di Escher che dell’antico borgo trasse alcune bellissime immagini. Stop divagazioni e veniamo alla sostanza di questa recensione. Il film di per sè non è nulla di eclatante. E’ carino, diretto bene, gli attori sono bravi (anche quelli non professionisti), la storia è piacevole, il messaggio arriva. Ma è tutto qui. Non è un capolavoro, non è una forte denunzia sociale. Però, ha un elemento in più: un fortissimo battage pubblicitario. Ovvero, il regista e i due attori principali sono praticamente in tournè in tutti i cinema d’Italia (anche quelli più infimi) per promuovere il film. E la cosa ha funzionato. Tant’è vero che alla premiere cui ho preso parte le due principali sale erano piene di gente. E i dati dei film più visti durante il periodo pasquale collocano il menzionato film ai primi posti.

L’assunto conclusivo è: se sai fare una buona pubblicità (e scegli attori di richiamo che stanno simpatici al pubblico), ti verranno a vedere. Al di là della validità del prodotto che proponi.

Ieri sono andato a vedere “Zamora”, appena uscito. Che è altrettanto leggero, ben recitato, garbato, umano, interessante e tutto sommato valido. E in sala eravamo in quattro.

Tî mmènde!

Duna

«Senza DuneGuerre stellari non sarebbe mai esistito» (George Lucas).

Parto subito con una bella citazione per introdurre l’amabile e solitario lettore che mi segue ad un’altra imperdibile recensione dedicata, questa volta, al film “Dune” in programmazione ormai da tempo nelle sale cinematografiche italiane. Film da me visto in un’enorme sala dall’impianto sonoro pompato al massimo (che a tutti gli effetti ha il suo perchè, soprattutto nelle scene epiche).

Premesso che non ho letto i libri e che la visione di “Dune – part 1” risale ad alcuni anni orsono e non sono andata a ripassarla, ho approcciato il film a mente sgombra e priva di pregiudizi, solo per il piacere di entrare nella narrazione fantascientifica.

La trama dell’opera è riassunta perfettamente nelle successive strofe, tratte dal brano dei Baustelle e i Cani:

Non scompiglia, forse, i tuoi capelli
Un poco dello stesso vento che spirava a Babilonia
Che soffiava su altre vite e carovane già passate
Sulla via, prima di noi?

Non c’è, forse, dentro la tua voce
L’eco di un amore atroce, l’ombra di una connessione
Tra i cantanti micidiali della tua generazione
E Nabucodonosor?

Inoltre, in considerazione della complessità della trama con casate, nomi di fantasia e intrecci vari, lo spettatore medio rischia di cadere nell’effetto “Kmer figlio di Pdor” ovvero il cavallo di battaglia dei comici Aldo, Giovanni e Giacomo dei tempi migliori. Per esempio, nella sceneggiatura dei dialoghi, il seguente passaggio avrebbe potuto funzionare alla grande:

Io sono il grande Pdor, figlio di Kmer della tribù di Instar! Della terra desolata del Sknir! Uno degli ultimi sette saggi! Purvurur, Garen, Pastararin, Giugiar, Taram, Fusciusc e Tarin He! Colui il quale può leggere nel presente, nel passato e anche nel congiuntivo!

A livello di trama, non si provano grandi sorprese: i cattivi fanno i cattivi, i buoni fanno i buoni e ognuno muore o vince quando è opportuno, senza grande coinvolgimento emotivo. Ecco, forse, la pecca più grande di questo film è non riuscire a rendere del tutto il tormento del protagonista e la difficoltà delle sue prove di iniziazione. Per il resto le ambientazioni sono belle, gli effetti speciali funzionano, i vermi fanno i vermi, le astronavi fanno le astronavi, le battaglie sono battaglie (ma io non riesco a comprendere come mai nei racconti di fantascienza, pur avendo a disposizione armi di distruzione di massa potentissime, alla fine tutto si riduce a scazzottate o a duelli con la spada. Ma davvero?) .

A chiusura di questo pezzo, vi segnalo che sebbene il titolo del film sia scritto uguale in inglese e in italiano, nella lingua albionica è sostantivo femminile singolare. Appare, quindi, chiaro che la Fiat Duna è l’ unico vero e semisconosciuto tributo della casa automobilistica torinese all’opera letteraria di Frank Herbert.

la zona di interesse

Era un pò che volevo andare a vedere il film “La zona di interesse” e per convincermi c’è voluto l’oscar (ma ci sarei andato lo stesso). Al cinema, ieri sera, eravamo una decina di persone in una grande e bella sala con ottime poltrone e un fantastico sonoro.

All’intervallo del primo tempo (senza passaggio del bibitaro, antica e ormai scomparsa usanza causa diffusione delle multisala) ho afferrato il commento di uno degli spettatori: “si bello, però dopo tre minuti si capisce su cosa ruota la storia”, cui sono seguite alcune considerazioni su dove andare a mangiare il sushi dopo la proiezione. Accompagnate, infine, da un confuso sproloquio sulla Palestina.

Mai recensione fu più appropriata, per tre ordini di motivi:

1) la storia ruota intorno alla “banalità del male”, rappresentata dalla nazi-famiglia che vive comoda e placida a pochi metri dal campo di concentramento. Impermeabile alla tragedia, anzi complice dello sterminio. Gli echi dello sterminio sono appena evocati con rumori di sottofondo e volute di fumo nero di giorno e fiamme dell’inferno di notte.

2) Oggi, a così tanti anni di distanza, e scomparsi quasi tutti i testimoni e i protagonisti, la maggior parte delle persone è impermeabile all’idea dello sterminio che è divenuta pura rappresentazione filmica. Una cosa che rimane sullo sfondo tra le decine di piccole preoccupazioni quotidiane di scarsa importanza. Siamo cinici? Forse.

3) Non giova alla causa ebraica quanto sta accedendo in Palestina da ormai diversi mesi. E’ come se, per la prima volta (a parte frange di idioti negazionisti) il primato dell’orrore (il termine “genocidio” ha avuto una prima compiuta utilizzazione in campo giuridico proprio per condannare i responsabili dei campi di concentramento) non fosse più una esclusiva degli ebrei. Non si può più usare come risarcimento (guardate cosa ci avete fatto) perché l’azione militare dell’esercito israeliano assomiglia ormai ad un’odiosa pulizia etnica.

Personalmente credo che “La zona di interesse” sia uscito in un momento importante della storia e può alimentare un utile confronto su un tema che non può essere liquidato con facili approssimazioni. Anche e soprattutto nei giorni del conflitto e della distruzione.

Da un punto di vista registico ho apprezzato molte delle scelte visive: gli stacchi di vuoto completo all’inizio e durante il film, quasi una sorta di vuoto incolmabile delle coscienze; la freddezza ordinata e pulita degli ambienti ove vivono i protagonisti; l’onirica rappresentazione in bianco e nero della ragazza che nasconde il cibo nella terra nella speranza che possa essere trovato dai prigionieri, unica forma di ostinata e silenziosa protesta contro un male straripante; la galleria degli orrori dei reperti conservati ad Aushwitz dentro grandi teche e vetrine, visti con gli occhi delle donne delle pulizie. Ma anche il conato di vomito di Rudolf Höß , comandante del campo, ed il suo sguardo verso quelle stesse vetrine, quei macabri oggetti conseguenza del suo operato. Un pentimento che in realtà, non vi è mai stato.

«Avere una fattoria che diventasse la nostra patria, il focolare per noi e i nostri figli, dopo la guerra intendevo infatti abbandonare il servizio attivo e comprare una fattoria.»

recensioni lungamente ponderate

L’altra sera (sabato sera) ero solo a casa e senza impegni. Perfino il gatto si era assentato per motivi suoi. In compagnia del divano e del telecomando mi sono concesso un film in TV. La scelta è caduta su “Once upon a time in Hollywood” di Quentin Tarantino che avrei dovuto vedere al cinema, ma non c’è stata l’occasione. Considerato che è uscito nel 2019, mi sono preso un pò di tempo. Che dire? A rileggere le entusiastiche recensioni dell’epoca, molto focalizzate sul duo Di Caprio-Pitt, mi si è alzato il sopracciglio. Infatti, l’ho trovato un film perfettamente “inutile”. Certo, ci sono molti degli elementi cari al cinema tarantiniano, ma avevano molto più senso in altre sue opere. Un omaggio alla Hollywood di fine anni ’60? Mi sta bene. Ci vogliamo mettere dentro il western? Ok. Facciamo fare qualche cameo agli amici? Eh dai su … L’unica parte che salverei è la resa dei conti finale con i cattivi hippies che vengono sterminati e non portano a compimento la vera strage in cui fu uccisa Sharon Tate. Ma anche questa finzione cinematografica Quentin l’aveva già usata in “Bastardi senza gloria”. Quindi, con un Brad Pitt più preoccupato di come indossare gli iconici occhiali da sole e di dimostrare di avere un fisico di tutto rispetto anche a sessant’anni, e un Di Caprio, invece, sempre più imbolsito e stanco, poco rimane di questo film ascrivibile alla categoria “esercizi cinematografici che non lasceranno alcun segno a parte per i fan sfegatati del regista di culto”.

E buona notte Hollywood.

PS contento, invece, per l’oscar vinto quest’anno da Emma Stone.

L’essere poeretti (poor things)

“Poor things” è un film che parte da lontano e si porta appresso nomi fantastici.

Intanto, è tratto da un libro il cui autore si chiamava Alasdair. Era scozzese e sapeva fare splendidi disegni. Poi ci si è messo di mezzo un regista di origini greche che si chiama Yorgos, il quale ha al suo attivo film piuttosto distopici e disturbanti (di cui non dirò nulla perché non li ho visti). Infine, si perviene ad un’attrice come Emma Stone (che viene da Scottsdale) ed avevo molto apprezzato in “Birdman”. Poi ci sarebbe Willem Dafoe che è sposato con Giada Colagrande, ma qui rischio di andare fuori tema.

Torniamo alla pellicola. Al solito mio, non parlo della trama (che trovate in giro sul web ad ogni pié sospinto), ma su cosa mi ha colpito.

In primis, tutto l’apparato scenografico e dei costumi. Gran parte del film si regge su questo strano mondo ibrido similvittoriano-moderno, sull’intreccio tra convenzionale e queer, sul mix di tecniche all’avanguardia e artigianali alla Georges Méliès. Sarebbe potuto venire fuori un gran pasticcio e, invece, tutta la vicenda tiene.

In secundis, l’immaginario ed il reale, il futuristico e l’arcaico si sostengono a vicenda e le vicende della protagonista Bella, la sua scoperta del mondo, il suo approccio candido e libero da convenzioni, il suo rivendicare autonomia di giudizio e piena disponibilità del proprio corpo (si scopa parecchio, oh si, si) lascia spazio a parecchie riflessioni sulle convenzioni sociali, sulla libertà di pensiero e giudizio.

Su tutto il film aleggia, senza neanche troppa dissimulazione, la figura del “mostro”. Godwin Baxter, colui che porta in vita Bella con il trapianto di cervello, è un moderno Frankenstein segnato nel volto nel corpo dagli esperimenti scientifici condotti su di lui dal padre. Bella è un “mostro”, ma anche l’esempio del sublime, qualcosa di cui avere timore, perché diverso. E mostri, più o meno dissimulati, ce ne sono sparpagliati per tutto il film: dai clienti del bordello fino all’ufficiale ex marito, sanguinario e cattivissimo (i pavimenti rosso sangue della magione-prigione sono un dettaglio fighissimo che non sfuggirà ai più attenti) che verrà poi trasformato in mansueta capretta brucante (ho concluso con uno spoilerone, ma tant’è).

Dunque, se avete un pò di tempo a disposizione, vi esorto ad andare al cinema a vedere “Poor things”. Saran soldi ben spesi e potrete parlarne per settimane ad ogni utile occasione.

aggiungi un posto ai Golden globes

Lo scopo di questo rapido post non è quello di fare la pubblicità alla serata appena occorsa dei Golden Globes, ma di farmi rifulgere di luce e bellezza in quanto annotato nella lista delle poche persone che hanno visto in Italia, al cinema, il film “Anatomia di una caduta” (“Anatomie d’une chute” di Justine Triet) prima che venisse premiato.

Film che consiglio vivamente in special modo a chi ama il cinema francese (il che esclude circa il 90% degli italiani) e le storie che esplorano psicologie e personaggi non banali.

Viva Sandra Hüller e la Turingia intera.

Il cinema che mi ha fatto compagnia nel 2023

Nella stesura della lista dei films che quest’anno mi hanno lasciato buoni ricordi posso serenamente inserire “Mio capitano”, “Oppenheimer” e “C’è ancora domani”. Quindi, almeno in linea teorica, dovrei aver assolto i miei compiti da bravo ed attento cittadino medio informato che “va a vedere, al cinema, i film che contano che poi entrano a far parte delle cose che si dicono le persone normali quando fanno conversazione al bar.”

In particolare, il film della Cortellesi (che ho apprezzato tantissimo) è divenuto un caso nazionale (il bianco e nero, il neo neo realismo, i temi sociali forti ecc. ecc.) e tutti ad applaudire. Io compreso.

Però.

Però ci sta un film del 2022, che si intitola “Settembre” che, a mio avviso, sugli stessi temi che ruotano intorno all’universo femminile, è un altrettanto piccolo capolavoro. Magari meno militante. Forse, meno ideologico. In qualche maniera ottimista. Di sicuro a colori. A me è piaciuto molto e spesso ci ripenso.

Napoleon bon bon

Se è vero che per l’uscita del film dedicato a Napoleone ci potessero essere delle significative aspettative (almeno per chi apprezza il genere storico), alla prova dei fatti, l’opera del Ridley Scott si è rivelata, almeno a mio insignificante parere, niente di così magniloquente ed eccezionale.

E’ un buon film soprattutto nella ricostruzione delle ambientazioni, degli abiti e dei luoghi, con qualche sprazzo crudel sanguinolento specie nelle battaglie, che devono molto all’epica di “Salvate il soldato Ryan” e, pertanto, non aggiungono nulla a livello emozionale,ma non si va oltre.

Ok, Bonaparte era innamorato di Giuseppina. Ok era un uomo. Ok gli è bastato girare il cappellone ed ha cambiato la storia (magari fosse stato sufficiente). Ok non era presente quando hanno ghigliottinato Maria Antonietta e non ha cannoneggiato le piramidi d’Egitto (tutte licenze artistiche). Ma, insomma … con un personaggio simile, forse, uno sforzetto in più lo si poteva fare. Dai, su.

Si poteva, ad esempio, concentrare la storia solo sulla relazione Napoleone-Giuseppina, tralasciando tutta la parte storica delle battaglie. Oppure si poteva fare un film solo sulle campagne militari di Napoleone, puntando sulla spettacolarizzazione che i moderni mezzi tecnologici oggi consentono. Che so, Napoleone che varca le Alpi a cavallo, la ritirata di Russia, le battaglie navali, qualche approfondimento sulle sue capacità organizzative e strategiche.

Note a margine: Napoleone che legge il giornaletto di gossip (scritto in inglese) dedicato alla sua allegra consorte dai facili costumi non si può proprio vedere.

Continua, infine, la fortunata serie dei personaggi detestabili inaugurata dall’ex bello Rupert Everett che, a partire da “Il nome della rosa” (serie tv con John Turturro), è ormai votato all’antipatia profonda. Una scelta di campo coraggiosa. Dovuta al suo naso aquilino ed alla curva triste della sua bocca (chissà cosa gli è successo nella vita reale). Anche nel caso del Duca di Wellington.

C’è ancora domani

Ci tenevo ad andare a vedere questo film. Non ha deluso le mie aspettative, anzi. Ho apprezzato il bianco e nero. Ho apprezzato alcune ingenuità della sceneggiatura. Ho apprezzato i personaggi. Ho apprezzato la capacità di saper raccontare un certo mondo femminile e un certo mondo maschile. Ho apprezzato la colonna sonora, specie le ” musichette” gioiose contrapposte a ciò che di gioioso non è. Ho apprezzato il modo in cui la violenza viene rappresentata con un ballo (tragico e romantico al tempo stesso). Ho apprezzato un segno di speranza. Ho apprezzato gli applausi della sala alla fine della proiezione (succede ancora, pensa un pò…)