L’altro giorno, durante un viaggio, ascoltavo alla “Radio Capital” un programmino di intrattenimento. Una roba del tipo: canzonette-commenti e chiacchere-pubblicità. I conduttori parlavano, tra l’altro, della fine dell’universo che, secondo un recente studio, avverrà tra circa 16 miliardi di anni. Ne parlavano in tono scherzoso, ovviamente, come se la cosa, in effetti, non importasse molto: “16 miliardi di anni ? E che me frega? Io non ci sarò più da un pezzo…” Ora, con tante cose da fare, con un intero mondo da spolpare e ridurre a pattumiera non c’è il tempo per riflettere su una cosa del genere, ma nel momento stesso in cui loro ne parlavano, io quell’attimo di sparizione eterno me lo sono immaginato. Un on/off che va ben al di là della morte. Perchè alla morte ci siamo abituati: è nell’ordine delle cose. Si muore tutti i giorni e ci sono le divinità, i parenti, gli amici per ricordare l’estinzione di un essere. Al morto di aver fatto brutte figure, di essere stato un bravo od un cattivo guaglione non importa più nulla, ormai partito verso il viaggio della disgregazione. Ma quello che da un senso alla vita ed alla morte delle persone, in realtà è la perpretazione (o la persistenza) di un ricordo: statue in pietra, ex voto, opere letterarie, lettere, fotografie, messaggini, filmini, tombe ecc. ecc. Tutto quanto da secoli l’umanità va accumulando è il disperato tentativo di non far perdere le proprie tracce, di dire “ehi, sia pure per una fetecchia di attimo, sono passato su questa Terra, ho fatto qualcosa, ho amato o odiato qualcuno“.
Ma un universo che si dissolve nel nulla, senza “il ricordo”, tra 16 miliardi di anni, proprio non si può sopportare.