giovani dispersi

Il testo di una canzone uscita nel 1994. L’anno in cui Apple lanciò il suo primo PC figo (il Mac) e la Sony la prima playstation. In cui Kurt Cobain si suicidò; Berlusconi scese in campo a gennaio e vinse le elezioni a marzo. Ma, soprattutto, un anno in cui si fece uso del secondo intercalare.

I giovani hanno i capelli lunghi e le basette come
Cespugli e nelle magliette la verità
I giovani girano per la città
I giovani parlano con i muri ma non
Ascoltano la risposta hanno una scritta sulla maglietta
E non domandano quanto costa
I giovani sono dentro i sondaggi catalogati in percentuali
I giovani stanno bene
I giovani stanno male
I giovani quali quelli più belli oppure
I giovani quelli brutti? I ricchi
I poveri I giovani cosa
I giovani che?

I giovani tutti

Tutti i giovani sempre giovani
non mi dire che ci sei anche tu
Tra quelli lì della pubblicità dell’aranciata
E della coca cola quelli che gridano ai concerti quelli
Che occupano la scuola

Quelli che non trovano da Lavorare quelli che ancora paga papà quelli che non
C’è mai un cazzo da fare in questa cazzo di città
Vorrei passare dai dieci ai trenta per non subire questa
Tortura il primo amore, la prima casa dover vestire
Quest’armatura il primo amico che ti tradisce o che
Magari tradisci tu
Il primo treno che non ci sali
E che magari non torna più

Uova di lompo e chardonnay

Svegliarsi presto la mattina e partire per un viaggio, con quel senso di precario e incertezza che mi accompagnano sempre in queste occasioni : arriverò puntuale? Mi scorderò qualcosa? Gli orologi della stazione sono enormi cerchi luminosi e le lancette scandiscono partenze e arrivi. Ovunque intorno sconosciuti. Ciascuno con la sua destinazione. Posto in prima classe, ma , nonostante i sedili in pelle concepiti da qualche affermato designer, lo spazio per le gambe è stretto e mi tocca viaggiare di sbieco. In compenso il caffè e il cornetto che ci vengono offerti (inclusi nel biglietto) sono buoni.

Non parlo con nessuno: il vicino di fronte a me dorme, gli altri stanno sui loro cellulari. Fuori, con tutta evidenza, mentre viaggiamo a 300 all’ora, la pianura padana è uniformemente grigia. Me lo aspettavo.

Mi faccio compagnia con la musica e cerco brani vecchi, cose andate. Traiettorie delle morte stagioni. Qualche debole ricordo di emozioni vivide eppure lontane. C’è stato un tempo in cui ascoltavo molto volentieri Sergio Caputo e le sue facezie.

Milano mi accoglie alla stazione centrale, sotto le arcate di ferro segno di un’incrollabile fiducia in un progresso passato troppo presto. I viaggiatori scendono e si disperdono. Mi disperdo anch’io, tanto non mi aspetta nessuno e nessuno mi conosce. Esco dal ventre bianco della balena e mi incammino verso il centro a piedi. È grigio. Tutto è grigio e freddo. C’è l’aria appagata della festa con i negozi ancora chiusi e poca gente in giro. Faccio la foto al pirellone con la sua svettante prospettiva e scivolo lungo la strada , sempre dritto. Sferragliano i tram, le vetrine del quadrilatero della moda mostrano abiti e sogni. Qualche signora con occhiali all’ultimo grido e soprabito color fucsia (che stacca bene su tutta questa bruma) porta a spasso il cagnolino e stringe al braccio una bella borsa.

Poi man mano che mi avvicino al centro storico le strade si animano e si incontrano turisti, stranieri, barboni, milanesi e sfaccendati. Basta arrivare alla Scala e il clima si fa festoso e disordinato. Per entrare in galleria quasi tocca fare la fila per quanti siamo. Su in alto, ci sono i palloncini sfuggiti dalle mani di qualche bambino rimasti impigliati al tetto di vetro e metallo. Mesti e colorati, una piccola gioia divenuta amara delusione.

Piazza duomo è un gran casino. Gente ovunque a spasso. Tutti felici con indosso gli abiti e le scarpe nuove. Tutti intenti a traversare la piazza , a parlare , a indicare qualcosa. Mi attirano le luci sulla facciata della Rinascente che mettono in risalto, in una cascata intermittente che vira dal viola al giallo al celeste pallido, il credo pronto di domani: saldi.

Ripercorro a ritroso i miei passi, gettando ogni tanto uno sguardo all’orologio, perché già un altro treno mi aspetta e dovrò ripartire. Provo qualche via laterale e poi riprendo il grande viale che riporta alla stazione centrale.

Il mio tempo qui è finito

Scrivere (secondo Sebald)

Per settimane e mesi ci torturiamo invano il cervello, e a chi ce lo domandasse non sapremmo dire perché continuiamo a scrivere, se per abitudine o per ambizione, oppure perché non abbiamo imparato a fare altro, o per la meraviglia che ci prende davanti alla vita, o magari per amore della verità, per disperazione o indignazione, così come non sapremmo mai dire se scrivere accresca in noi la saggezza o la follia.

lasciarsi alle spalle il 2022 con un film natalizio

Il 27 dicembre dell’anno definitivamente passato sono andato al cinema, insieme alla mia famiglia, come da antica e consolidata tradizione. Riti che sono duri a morire, nonostante la crisi del settore.

La scelta è caduta su “Avatar2 – La via dell’acqua” , poichè il primo episodio ci era piaciuto assai. Il secondo è la riconferma della bellezza espressiva degli effetti speciali, senza aggiungere cose nuove alla trama. Sono tornati alcuni vecchi personaggi, ne sono stati introdotti di nuovi. La lotta tra il bene (popoli nativi) e il male (umani invasori e sfruttatori) ha trovato ulteriori forme di espressione combattiva, con un dichiarato amore per gli oceani e le creature degli abissi. E’ un episodio interlocutorio, in attesa del terzo film, e come tale non ha una conclusione. Quando si entra nel filone “saga”, il rischio è di essere ripetitivi.

Considerazioni personali: il film è ben fatto, ma non scalda il cuore. Inoltre, mi ha dato fastidissimo la grande presa per il culo , introdotta sui social netework a soli fini pubbliciatri, di possibili effetti depressivi nei confronti dei giovani spettatori. Il film è andato al grande al botteghino ed i miei figli stanno benissimo.