Duna

«Senza DuneGuerre stellari non sarebbe mai esistito» (George Lucas).

Parto subito con una bella citazione per introdurre l’amabile e solitario lettore che mi segue ad un’altra imperdibile recensione dedicata, questa volta, al film “Dune” in programmazione ormai da tempo nelle sale cinematografiche italiane. Film da me visto in un’enorme sala dall’impianto sonoro pompato al massimo (che a tutti gli effetti ha il suo perchè, soprattutto nelle scene epiche).

Premesso che non ho letto i libri e che la visione di “Dune – part 1” risale ad alcuni anni orsono e non sono andata a ripassarla, ho approcciato il film a mente sgombra e priva di pregiudizi, solo per il piacere di entrare nella narrazione fantascientifica.

La trama dell’opera è riassunta perfettamente nelle successive strofe, tratte dal brano dei Baustelle e i Cani:

Non scompiglia, forse, i tuoi capelli
Un poco dello stesso vento che spirava a Babilonia
Che soffiava su altre vite e carovane già passate
Sulla via, prima di noi?

Non c’è, forse, dentro la tua voce
L’eco di un amore atroce, l’ombra di una connessione
Tra i cantanti micidiali della tua generazione
E Nabucodonosor?

Inoltre, in considerazione della complessità della trama con casate, nomi di fantasia e intrecci vari, lo spettatore medio rischia di cadere nell’effetto “Kmer figlio di Pdor” ovvero il cavallo di battaglia dei comici Aldo, Giovanni e Giacomo dei tempi migliori. Per esempio, nella sceneggiatura dei dialoghi, il seguente passaggio avrebbe potuto funzionare alla grande:

Io sono il grande Pdor, figlio di Kmer della tribù di Instar! Della terra desolata del Sknir! Uno degli ultimi sette saggi! Purvurur, Garen, Pastararin, Giugiar, Taram, Fusciusc e Tarin He! Colui il quale può leggere nel presente, nel passato e anche nel congiuntivo!

A livello di trama, non si provano grandi sorprese: i cattivi fanno i cattivi, i buoni fanno i buoni e ognuno muore o vince quando è opportuno, senza grande coinvolgimento emotivo. Ecco, forse, la pecca più grande di questo film è non riuscire a rendere del tutto il tormento del protagonista e la difficoltà delle sue prove di iniziazione. Per il resto le ambientazioni sono belle, gli effetti speciali funzionano, i vermi fanno i vermi, le astronavi fanno le astronavi, le battaglie sono battaglie (ma io non riesco a comprendere come mai nei racconti di fantascienza, pur avendo a disposizione armi di distruzione di massa potentissime, alla fine tutto si riduce a scazzottate o a duelli con la spada. Ma davvero?) .

A chiusura di questo pezzo, vi segnalo che sebbene il titolo del film sia scritto uguale in inglese e in italiano, nella lingua albionica è sostantivo femminile singolare. Appare, quindi, chiaro che la Fiat Duna è l’ unico vero e semisconosciuto tributo della casa automobilistica torinese all’opera letteraria di Frank Herbert.

CCCP (che si pronuncia SSSR)

A cavallo tra gli ottanta e i novanta, nei corridoi marmorei dell’università privata ove presi la laurea, nel tempio di confindustria e del capitalismo rampante, noi studenti di economia si ascoltava nei walkman (oggetto preistorico e sconosciuto ormai ai più), tra una lezione e l’altra, i CCCP.

E ho detto tutto.

Mo’ tutto ‘sto revival, ‘sto finto rimpiantismo, ‘sta celebrazione , ‘ste polemiche sul costo dei biglietti. Ma andate un pò in vacanza in uno splendido Glavnoe upravlenie ispravitel’no-trudovych lagerej.

le grandi rivoluzioni occasionali

C’era un mio amico di tanto tempo fa che era sempre avanti su tutto. Le cose le sapeva prima e le sperimentava per primo. Non so come facesse, ma ci riusciva. Immagino l’ebrezza di essere uno sperimentatore, quello che fa i primi passi, da solo o quasi. Il suo campo preferito era quello dell’informatica e, in particolare, il web. Il rovescio della sua spasmodica ricerca della novità era rappresentato dal fatto che appena qualcosa diveniva di uso comune, si disamorava presto, per dedicare la propria attenzione ad altro. In questo, il suo comportamento era di sicuro quasi elitario. Ora, nel campo dell’evoluzione tecnologica la rapidità con cui si succedono le innovazioni ha raggiunto ritmi piuttosto vertiginosi, un pò per spinta commerciale, un pò per effettivo progresso. Ed è anche piuttosto ovvio che, ogni volta che viene fatto un salto in avanti, anche di natura quantica, difficilmente si torna indietro o si rimpiange il passato.

La stessa cosa è avvenuta con i social, in un arco temporale tutto sommato piuttosto breve. Direi circa venti anni. Che è grosso modo da quando ho iniziato a scrivere il mio blog in territori che non esistono più (la migrazione sull’attuale piattaforma, occorsa nel 2011, mi ha fatto perdere, purtroppo, il pregresso che, almeno a memoria, dovrebbe risalire addirittura al millennio precedente). Ricordo, ad ogni modo, in maniera molto netta la sensazione di onnipotenza che mi conferiva possedere un sito personale (piuttosto statico) trasmutato poi in diario di bordo digitale. Mi sembrava di far parte di una setta, di un gruppo di felici cospiratori, tutti accomunati dal desiderio di esporre pensieri, condividere letture ed opinioni, costruire percorsi dialettici. Certo, non ero bravo come gli organizzatori di boot camp e premi macchianera et similia. Ma avevo la sensazione di alimentare un processo di crescita e confronto. Il digitale stava aprendo nuovissime frontiere e l’identità acorporea si vestiva di nuove valenze e super poteri. Di quella stagione lì, a distanza di tempo, non è rimasto quasi nulla. I processi di comunicazione hanno preso altre vie, i blog sono divenuti desueti e soprattutto, l’uso del web è divenuto “volgare”, mosso da bassi istinti e da poco avveduti soggetti. Se un tempo si cercava la dotta e calzante citazione, frutto di letture o passaggi cinematografici, adesso siamo alla fase “rutto libero” (molto spassosa, ma poco gratificante). E’ come se si fosse persa la solida compostezza di persone che avevano piacere a ragionare in favore dell’esaltazione del corpo sciolto. Più democratico, senza alcun dubbio, ma anche di gran lunga meno interessante.

Capisco, quindi, il mio amico di un tempo che si annoiava presto dell’ultima novità. Lui, di sicuro, è andato molto avanti, conscio (non so quanto) che l’unica cosa interessante è cogliere la traiettoria nel momento in cui si dispiega e traccia un percorso, mentre io sono ancora qui a scrivere a favore di non si sa bene chi. Forse solo a me stesso.

la zona di interesse

Era un pò che volevo andare a vedere il film “La zona di interesse” e per convincermi c’è voluto l’oscar (ma ci sarei andato lo stesso). Al cinema, ieri sera, eravamo una decina di persone in una grande e bella sala con ottime poltrone e un fantastico sonoro.

All’intervallo del primo tempo (senza passaggio del bibitaro, antica e ormai scomparsa usanza causa diffusione delle multisala) ho afferrato il commento di uno degli spettatori: “si bello, però dopo tre minuti si capisce su cosa ruota la storia”, cui sono seguite alcune considerazioni su dove andare a mangiare il sushi dopo la proiezione. Accompagnate, infine, da un confuso sproloquio sulla Palestina.

Mai recensione fu più appropriata, per tre ordini di motivi:

1) la storia ruota intorno alla “banalità del male”, rappresentata dalla nazi-famiglia che vive comoda e placida a pochi metri dal campo di concentramento. Impermeabile alla tragedia, anzi complice dello sterminio. Gli echi dello sterminio sono appena evocati con rumori di sottofondo e volute di fumo nero di giorno e fiamme dell’inferno di notte.

2) Oggi, a così tanti anni di distanza, e scomparsi quasi tutti i testimoni e i protagonisti, la maggior parte delle persone è impermeabile all’idea dello sterminio che è divenuta pura rappresentazione filmica. Una cosa che rimane sullo sfondo tra le decine di piccole preoccupazioni quotidiane di scarsa importanza. Siamo cinici? Forse.

3) Non giova alla causa ebraica quanto sta accedendo in Palestina da ormai diversi mesi. E’ come se, per la prima volta (a parte frange di idioti negazionisti) il primato dell’orrore (il termine “genocidio” ha avuto una prima compiuta utilizzazione in campo giuridico proprio per condannare i responsabili dei campi di concentramento) non fosse più una esclusiva degli ebrei. Non si può più usare come risarcimento (guardate cosa ci avete fatto) perché l’azione militare dell’esercito israeliano assomiglia ormai ad un’odiosa pulizia etnica.

Personalmente credo che “La zona di interesse” sia uscito in un momento importante della storia e può alimentare un utile confronto su un tema che non può essere liquidato con facili approssimazioni. Anche e soprattutto nei giorni del conflitto e della distruzione.

Da un punto di vista registico ho apprezzato molte delle scelte visive: gli stacchi di vuoto completo all’inizio e durante il film, quasi una sorta di vuoto incolmabile delle coscienze; la freddezza ordinata e pulita degli ambienti ove vivono i protagonisti; l’onirica rappresentazione in bianco e nero della ragazza che nasconde il cibo nella terra nella speranza che possa essere trovato dai prigionieri, unica forma di ostinata e silenziosa protesta contro un male straripante; la galleria degli orrori dei reperti conservati ad Aushwitz dentro grandi teche e vetrine, visti con gli occhi delle donne delle pulizie. Ma anche il conato di vomito di Rudolf Höß , comandante del campo, ed il suo sguardo verso quelle stesse vetrine, quei macabri oggetti conseguenza del suo operato. Un pentimento che in realtà, non vi è mai stato.

«Avere una fattoria che diventasse la nostra patria, il focolare per noi e i nostri figli, dopo la guerra intendevo infatti abbandonare il servizio attivo e comprare una fattoria.»

recensioni lungamente ponderate

L’altra sera (sabato sera) ero solo a casa e senza impegni. Perfino il gatto si era assentato per motivi suoi. In compagnia del divano e del telecomando mi sono concesso un film in TV. La scelta è caduta su “Once upon a time in Hollywood” di Quentin Tarantino che avrei dovuto vedere al cinema, ma non c’è stata l’occasione. Considerato che è uscito nel 2019, mi sono preso un pò di tempo. Che dire? A rileggere le entusiastiche recensioni dell’epoca, molto focalizzate sul duo Di Caprio-Pitt, mi si è alzato il sopracciglio. Infatti, l’ho trovato un film perfettamente “inutile”. Certo, ci sono molti degli elementi cari al cinema tarantiniano, ma avevano molto più senso in altre sue opere. Un omaggio alla Hollywood di fine anni ’60? Mi sta bene. Ci vogliamo mettere dentro il western? Ok. Facciamo fare qualche cameo agli amici? Eh dai su … L’unica parte che salverei è la resa dei conti finale con i cattivi hippies che vengono sterminati e non portano a compimento la vera strage in cui fu uccisa Sharon Tate. Ma anche questa finzione cinematografica Quentin l’aveva già usata in “Bastardi senza gloria”. Quindi, con un Brad Pitt più preoccupato di come indossare gli iconici occhiali da sole e di dimostrare di avere un fisico di tutto rispetto anche a sessant’anni, e un Di Caprio, invece, sempre più imbolsito e stanco, poco rimane di questo film ascrivibile alla categoria “esercizi cinematografici che non lasceranno alcun segno a parte per i fan sfegatati del regista di culto”.

E buona notte Hollywood.

PS contento, invece, per l’oscar vinto quest’anno da Emma Stone.

shitstorm

Il 4 marzo muore Barbara Balzerani, già terrorista e assassina, ma ormai in libertà da tempo (nonostante l’ergastolo). La notizia di per sé non sembra aver scosso le coscienze di molti, considerato che la stagione degli “anni di piombo” è ormai passata e molti dei suoi storici protagonisti sono vecchi o morti.

A qualcuno (mediamente famoso) è, però, partito l’embolo “nostalgico barricadero”, pubblicando sui social (maledetti social), un post che suona così:

La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna. #barbarabalzerani”.

Ed è subito MERDONE. L’autrice del post è a Professoressa Donatella Di Cesare che non è esattamente una sprovveduta: filosofa, saggista, editorialista e professore universitario, ha all’attivo una significativa produzione dedicata, tra l’altro, allo studio dell’antisemitismo, ma anche del terrorismo moderno. Cosa ci voleva comunicare la Professoressa con questo suo pensiero istantaneo? Una simpatia nei confronti della terrorista? La compagna Luna. Una simpatia nei confronti della lotta armata? La malinconia per la gioventù che fu? Per gli ideali? Per la rivoluzione ? In che misura le vie diverse non cancellano le idee? Barbara Balzerani non si è mai dissociata dal terrorismo. E anche lei, pochi anni fa, si è presa un bel merdone per un ulteriore improvvido (o voluto) post pubblicato su faccialibro: “chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40nnale?” riferendosi ai quarant’anni dalla strage di Via Fani dove lei c’era e fu parte attiva del commando che uccise i 5 uomini della scorta e rapì Aldo Moro.

Chi muore giace e chi vive scrive post fessi (mentre farebbe meglio a continuare a pubblicare saggi ben argomentati e lunghi non meno di cento pagine).

Vittime del terrorismo: qui