la zona di interesse

Era un pò che volevo andare a vedere il film “La zona di interesse” e per convincermi c’è voluto l’oscar (ma ci sarei andato lo stesso). Al cinema, ieri sera, eravamo una decina di persone in una grande e bella sala con ottime poltrone e un fantastico sonoro.

All’intervallo del primo tempo (senza passaggio del bibitaro, antica e ormai scomparsa usanza causa diffusione delle multisala) ho afferrato il commento di uno degli spettatori: “si bello, però dopo tre minuti si capisce su cosa ruota la storia”, cui sono seguite alcune considerazioni su dove andare a mangiare il sushi dopo la proiezione. Accompagnate, infine, da un confuso sproloquio sulla Palestina.

Mai recensione fu più appropriata, per tre ordini di motivi:

1) la storia ruota intorno alla “banalità del male”, rappresentata dalla nazi-famiglia che vive comoda e placida a pochi metri dal campo di concentramento. Impermeabile alla tragedia, anzi complice dello sterminio. Gli echi dello sterminio sono appena evocati con rumori di sottofondo e volute di fumo nero di giorno e fiamme dell’inferno di notte.

2) Oggi, a così tanti anni di distanza, e scomparsi quasi tutti i testimoni e i protagonisti, la maggior parte delle persone è impermeabile all’idea dello sterminio che è divenuta pura rappresentazione filmica. Una cosa che rimane sullo sfondo tra le decine di piccole preoccupazioni quotidiane di scarsa importanza. Siamo cinici? Forse.

3) Non giova alla causa ebraica quanto sta accedendo in Palestina da ormai diversi mesi. E’ come se, per la prima volta (a parte frange di idioti negazionisti) il primato dell’orrore (il termine “genocidio” ha avuto una prima compiuta utilizzazione in campo giuridico proprio per condannare i responsabili dei campi di concentramento) non fosse più una esclusiva degli ebrei. Non si può più usare come risarcimento (guardate cosa ci avete fatto) perché l’azione militare dell’esercito israeliano assomiglia ormai ad un’odiosa pulizia etnica.

Personalmente credo che “La zona di interesse” sia uscito in un momento importante della storia e può alimentare un utile confronto su un tema che non può essere liquidato con facili approssimazioni. Anche e soprattutto nei giorni del conflitto e della distruzione.

Da un punto di vista registico ho apprezzato molte delle scelte visive: gli stacchi di vuoto completo all’inizio e durante il film, quasi una sorta di vuoto incolmabile delle coscienze; la freddezza ordinata e pulita degli ambienti ove vivono i protagonisti; l’onirica rappresentazione in bianco e nero della ragazza che nasconde il cibo nella terra nella speranza che possa essere trovato dai prigionieri, unica forma di ostinata e silenziosa protesta contro un male straripante; la galleria degli orrori dei reperti conservati ad Aushwitz dentro grandi teche e vetrine, visti con gli occhi delle donne delle pulizie. Ma anche il conato di vomito di Rudolf Höß , comandante del campo, ed il suo sguardo verso quelle stesse vetrine, quei macabri oggetti conseguenza del suo operato. Un pentimento che in realtà, non vi è mai stato.

«Avere una fattoria che diventasse la nostra patria, il focolare per noi e i nostri figli, dopo la guerra intendevo infatti abbandonare il servizio attivo e comprare una fattoria.»

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